Le lesioni riportate in occasione dello svolgimento del proprio lavoro non determinano di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo, tra l’altro, la prova della nocività dell’ambiente di lavoro o la dimostrazione di un inadempimento rilevante (art. 2103 del codice civile “Prestazione del lavoro”) .
Lo ha statuito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 18132/2020, pubblicata il 31 agosto 2020 dalla sezione lavoro, con la quale si è pronunciata sulla responsabilità di un datore di lavoro nel caso di malattia di una lavoratrice derivante da “causa di servizio”.
Nel merito, una dipendente di un ufficio postale lamentava di aver subito un grave danno alla salute come conseguenza delle condizioni di lavoro, cui era sottoposta mentre svolgeva la propria attività lavorativa.
I Giudici di legittimità hanno precisato come la responsabilità ex art. 2087 del codice civile non sia di natura oggettiva ma contrattuale, confermando tra l’altro quanto stabilito dalla Corte d’Appello che non aveva ritenuto di poter configurare nessuna responsabilità risarcitoria a carico della società. In casi come questi, infatti, l’onere della prova spetta al lavoratore che, lamentando di aver subito un danno alla salute per motivi di servizio, deve dimostrare l’esistenza della lesione, la natura nociva dell’ambiente in cui lavora e il nesso fra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro (una volta che il lavoratore abbia provato le circostanze) l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno o di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno stesso.